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Il caso Visco-Speciale e la deontologia militare. PDF Stampa E-mail
Il caso Visco-Speciale e la deontologia militare

di Andrea Tani da Pagine di Difesa

Un aspetto del recente malinconico caso Visco-Speciale che sembra essere sfuggito ai più è rappresentato dalla grossolana e totale mancanza di comunicazione e di comprensione reciproca fra i due personaggi. Naturalmente molto più accentuata da parte dell’esponente politico - a quello che si capisce - ma presente anche nell’evidente disprezzo con il quale il comandante generale della Guardia di Finanza ha trattato molte delle iniziative del viceministro, che probabilmente non erano tutte e solo interferenze ma anche tentativi – forse maldestri - di esercitare l’alto compito di indirizzo e di direzione strategica che la legge assegna al governo, nei riguardi della Guardia di Finanza, come di tutto il resto.

Tralasciando lo specifico episodio, sul quale si sa troppo poco per tentare una qualsiasi valutazione diversa da quelle che si è sentita e letta, la vicenda offre lo spunto per una riflessione sui non sempre agevoli rapporti fra il potere politico e quello militare nel nostro Paese, la cui scorrevole fruizione viene data per scontata, ma che scontata non è affatto. Richiamiamo un momento i termini storici del problema. L’Italia è retta da un vertice istituzionale scelto liberamente, democraticamente e dialetticamente dal popolo sovrano solo da una quindicina d’anni. Ovvero dal crollo del blando ma ferreo duopolio teocratico-comunista del dopoguerra, che era seguito al ventennio di dittatura mussoliniana e al regime monarchico precedente.

Quest’ultimo poteva essere considerato relativamente democratico e aperto a tutti gli effetti, salvo nei confronti della specifica questione dei rapporti dei militari con le istituzioni politiche dove la questione non si poneva. I generali obbedivano al re (soldato) e basta. Magari cercavano di influenzarlo e di condizionarlo, ma non vi era dubbio che il loro ruolo, nel contesto delle guarentigie regie sulle forze armate, era prevalente rispetto ai rappresentanti del popolo che nel patrio governo si occupavano di amministrare la macchina bellica.

Sul Ventennio si sa, e sul quasi Cinquantennio successivo si comincia a capire. I rapporti erano stati formalmente definiti nella Costituzione repubblicana, ma erano rapporti fra diseguali, interessando una nomenclatura militare uscita screditata e ininfluente dalla sconfitta bellica (e l’invenzione postbellica di un mito resistenziale suprematista su ogni altro) che aveva a che fare con una sostanziale dittatura delle anime e delle tessere da parte di una politica totalizzante, ferrea e omnicomprensiva, la quale accompagnava l’italiano medio non solo dalla culla alla tomba ma anche dopo, per i motivi che sappiamo. Al momento non ce ne siamo accorti, ma se ci si pensa bene era proprio così.

Dopo il crollo della prima repubblica - o dell’ultima dittatura, se si preferisce - l’Italia è diventata finalmente una democrazia rappresentativa compiuta. Approssimativa, inefficiente, sgangherata quanto si vuole, ma veramente tale, con tutte le complicazioni del caso, le quali peraltro sono alla base delle difficoltà che stiamo vivendo come corpo sociale complessivo. Sarebbe difficile fosse altrimenti tenendo presente che siamo liberi e indipendenti da tutele soffocanti solo da una quindicina d’anni e che scontiamo le tipiche sindromi infantile e adolescenziali di questi casi. Gli Stati Uniti avevano raggiunto questo stadio di maturazione all’inizio dell’Ottocento, tanto per fare un paragone fra i tanti; le repubbliche sudamericane, che spesso guardiamo dall’alto in basso, un paio di decenni più tardi.

Di tutto questo i militari, o almeno una parte di essi, non sembrano essersi accorti, chiusi nella torre di avorio della loro autoreferenzialità. Continuano a pretendere dal sovrano un trattamento speciale, per la loro unica e irripetibile funzione o - in alternativa - ad appiattirsi nell’ossequio a un potere politico dominante e indiscutibile, sempre pronti a obbedire o a servire, a seconda dei casi. L’oscillazione fra questi due comportamenti determina molte delle angustie dell’oggi e dell’ieri, e dovrebbe essere oggetto di una esplicita presa di coscienza, con eventuale autocritica e auspicata modifica di modi di fare e di agire.

Il problema è come devono porsi i responsabili militari a tutti i livelli - non solo i Capi, ma anche i vari comandanti di teatro di operazioni che interagiscono con potestà diverse dalle loro – nei confronti del potere politico, rappresentato da uomini spesso mediocri, quasi sempre incompetenti nelle materie castrensi e a volte discutibili sotto il profilo dell’eticità dei comportamenti, ma che rappresentano direttamente e del tutto lecitamente il vero sovrano assoluto di oggi: la maestà del voto popolare, come disse George H. Bush a proposito dell’entità alla quale si inchinava dopo la sua sconfitta contro il ragazzotto Clinton (così lo aveva apostrofato durante la campagna elettorale).

Questa sembra essere l’essenza del problema: il rifiuto inconscio o malamente represso di molti militari nel riconoscere in quei personaggi che si comportano come abbiamo saputo e sappiamo ogni giorno – ma non è sempre e solo quello il modo, ovviamente - i depositari e i rappresentanti della sovranità della nazione. Questo rifiuto è comprensibile, a volte, ma non accettabile, in alcun caso che non sia di manifesta fraudolenza. Wright or wrong, questi signori sono i rappresentanti del popolo italiano, in nome e per conto del quale i soldati servono la nazione e vegliano in armi sul mare, sulla terra o anche in cielo.

E’ da sperare che la deontologia e i comportamenti dei politici migliorino nel tempo e consentano una più agevole coincidenza fra funzioni, responsabilità e rappresentazione esterna della sacralità del ruolo, consentendo ai militari di mollare la presa montanelliana dalle proprie narici, allontanando pollice e indice. Nel frattempo si faccia di necessità virtù e si mettano da parte riserve mentali, arroganze mal dissimulate, sdegni più o meno distratti (per le proprie, di manchevolezze) e si offra a chi porta e spesso sopporta i gravami della responsabilità – anche perchè non è all’altezza, e non per colpa sua ma per l’obiettiva difficoltà di esserlo - la leale collaborazione della quale questi hanno diritto e che è giusto fornire.

Molti alti ufficiali hanno già acquisito la completa padronanza di tale esercizio, che praticano giornalmente con efficacia e grande giovamento per il Paese e per l’organizzazione che guidano. Spesso ciò è dovuto al fatto che hanno operato a lungo in ambito politico-militare (gabinetto del ministro, vertici della Difesa, in prossimità del Parlamento…). Hanno imparato le regole del gioco e si sono anche accorti delle spesso non trascurabili qualità dei rappresentanti del popolo, che sono spesso meglio di come vengono descritti. Ma soprattutto hanno metabolizzato la sacralità - si potrebbe quasi dire - del rapporto fra il corpo sociale nel suo insieme e i suoi rappresenti liberamente e correttamente eletti. La quale sacralità costituisce l’essenza più alta e preziosa del sistema democratico, quel sistema che a dirla alla Churchill è “pessimo, ma non se ne conosce uno migliore”.

Si potrebbe capitalizzare su tali esempi positivi cercando di estenderli all’intero corpo ufficiali, rendendo la materia oggetto di approfondimento professionale. Dato che non tutti gli ufficiali prestano servizio presso gabinetti e consimili (soprattutto quando sono più aperti all’apprendimento, ovvero da giovani), perché non prevedere di trattare approfonditamente la materia nei corsi di stato maggiore (soprattutto di alto livello interforze, Casd, etc.), che i medesimi frequentano nel corso della carriera? Perché lasciare al caso e a circostanze fortuite le prese di coscienza – quasi sempre individuali - di queste realtà e delle regole del gioco che disciplinano al massimo e più importante livello i rapporto del mondo militare con il potere?


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