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Un interessante saggio del Prof. Battistelli sulle qualità - accessorie - dei militari italiani PDF Stampa E-mail

La tavola italiana come strumento di dialogo tra i popoli


Fabrizio Battistelli*

 

1. A tavola con gli amici

Nutrirsi - ineludibile funzione fisiologica per ogni organismo vivente – è per l’essere umano qualcosa di più e di diverso: è una costruzione sociale e culturale ad opera di creature “sospese fra ragnatele di significatiâ€, nell’incisiva definizione di Clifford Geertz (1987: 41). Nel corso dei millenni gli uomini e le donne hanno assegnato all’atto del nutrirsi - o meglio (in età storica) del mettersi a tavola - un insieme di significati la cui intensità e complessità sono pari soltanto a quelle di attività altrettanto ancestrali: il congiungersi sessualmente, il difendersi e l’attaccare, il relazionarsi ai propri defunti e alla divinità.

Uno dei principali, o probabilmente il principale, dei significati assegnati all’atto di sedersi a tavola per consumare il cibo insieme ad un qualcuno - definito appunto commensale - è quello dell’appartenenza comune. Quest’ultima è data per acquisita nel caso del familiare, mentre è conseguita nel caso dell’ospite: un (felice) processo di riconduzione dell’eterogeneo all’omogeneo, che ha per coronamento uno stato di pace.

Per le sue caratteristiche sia materiali sia simboliche, infatti, il mangiare insieme presuppone uno stato di quiete, di accordo e di fiducia tra i protagonisti. Sarebbe intrinsecamente contraddittorio condividere il desinare con un attore con il quale ci si trovi in conflitto. Porsi a tavola con un nemico significherebbe, prima di ogni altra cosa, esporsi alla minaccia quando si è, tipicamente, in/difesi, dis/armati (si pensi all’atavica proibizione di portare a tavola le armi). Inoltre, nel consumare il pasto insieme non c’è solo l’inermità insita nella rinuncia degli strumenti di offesa e di difesa ma, anche, la disponibilità a un’inclusione del mondo dell’altro nell’offerta-accettazione di un prodotto manipolato e segnato, e dunque garantito, dall’altro. Chi viene meno a questo patto di reciproca fiducia viola un tabù comune a tutte le civiltà umane, si rende colpevole di un vulnus che non può essere perdonato né dagli uomini né dagli dei. Questo è ciò che mostra il mito rappresentato nella tragedia senechiana che ha per protagonista Tieste. Dichiarando di voler interrompere il lungo conflitto con il fratello Tieste, Atreo imbandisce un finto banchetto di riconciliazione e gli dà in pasto i figli, iperbole di un odio incommensurabile. Proprio l’esecrazione riservata a chi, ospite ad ospitato, tradisce il patto implicito nel condividere la mensa, è la riprova dell’importanza annessa a quest’ultima nell’includere e nel pacificare. Dai poemi omerici a quelli cavallereschi (per limitarci alla cultura occidentale), la letteratura è piena di visitatori che vengono ospitati a tavola e di rivali che a tavola si riappacificano.

Così come sono numerosi (troppi per essere citati) gli esempi storici in cui alleanze, accordi, paci o almeno tregue, per non parlare di visite, ambascerie, congressi e summit, si sono conclusi e si concludono con un pranzo più o meno solenne. Tanto al livello “alto†degno della memoria degli storici e della creatività dei poeti, quanto al livello quotidiano, il significato di pace della tavola è espresso dalla parola chiave: “insiemeâ€. Si tratta del “mangiare insieme†del convivio e del “bere insieme†del simposio; non a caso due termini che danno il nome, in Dante e in Platone, a due opere tra le più significative della letteratura e del pensiero dell’Occidente.

La tavola dunque mette insieme, la tavola - secondo il detto popolare - unisce, fa cioè una di due persone. In questo senso essa si pone agli antipodi della guerra, istituzione che, invece, divide. La guerra fa di chi prima era, o avrebbe potuto essere, uno, due (amico-nemico, nell’estrema sintesi di Carl Schmitt, 1981). L’intrinseco dualismo della guerra è chiaro nel nesso etimologico bellum-duellum. Del resto dividere (dia-ballein), è la missione del diavolo.

Dovendo situare in un contesto umano il legato di riscatto e di amore per l’uomo da parte di Gesù, la rivelazione cristiana sceglie un ambiente fisico (il cenacolo), un evento (l’ultima cena), un gesto (lo spezzare il pane), tutti saldamente incardinati nell’esperienza del desinare insieme. Ponendo al centro dei sacramenti l’eucarestia, la Chiesa accoglie e promuove l’assunzione di un cibo materiale e insieme spirituale come la massima forma di partecipazione. Un significato che non sfugge alla critica laicista più radicale che, con Voltaire, paragona alle pratiche (esse stesse rituali) degli antropofagi il mistero di cibarsi del corpo e del sangue della Divinità.

2. Il cibo tra diversità e omogeneizzazione

Anche in contesti storici meno turbolenti dell’Italia rinascimentale con le sue vivande intossicate di veleno e i suoi vini tagliati con l’acqua tofana, accettare i cibi e le bevande dell’altro costituisce pur sempre un rischio e, di converso, una prova di fiducia. Ammettere un estraneo a tavola è una dimostrazione di accettazione del medesimo ma, anche, un test cui lo si sottopone per vagliare la sua adeguatezza a ricevere-realizzare questo passo. Ponendo il visitatore occidentale di fronte al piatto di portata al quale tutti attingono con le mani, il padrone di casa arabo sa di proporre un comportamento dissonante con le abitudini del suo ospite e quindi ne studia la reazione. L’identica operazione compie il gaucho di Rio Grande del Sud, facendo girare la bombilla con il mate: l’esitazione del visitatore nel succhiare la bevanda dall’unico cannello d’argento, o peggio le sue dichiarazioni di non avere sete o altre consimili giustificazioni, vengono accolte con benevola ironia dal gruppo degli autoctoni.

Poche cose, infatti, come la reazione di fronte al mangiare e al bere locale, sono rivelatrici dell’intimo atteggiamento del visitatore nei confronti dell’alterità. Non è infrequente rilevare nel viaggiatore occidentale non soltanto la ragionevole prudenza nell’ingerire solidi e liquidi di provenienza dubbia, possibili vettori di infezioni in organismi privi di difese specifiche; ma anche l’irrazionale prevenzione verso qualunque alimento proposto in qualunque sede del paese visitato in quanto proveniente da un mondo straniero, cioè sconosciuto e minaccioso. Di questo tipo la quotidiana dieta a base di formaggini svizzeri da me osservata in colleghi occidentali impegnati in un Congresso accademico in India: ciò anche all’interno di un hotel a cinque stelle, dotato di cucine asettiche, personale selezionato e complessivamente in grado di offrire eccellenti rivisitazioni della cucina locale in chiave internazionale. In una reazione fobica di questo tipo (alla quale avvicino l’imbarazzo che nella stessa occasione ho rilevato nei confronti dell’eccesso di vicinanza fisica, o addirittura di contatto, praticato dalla popolazione locale) è possibile individuare gli effetti di un atteggiamento etnocentricamente poco disponibile alla comunicazione con l’altro.

Ampiamente diffuso in tutto il mondo occidentale (e non solo in esso, naturalmente) questo atteggiamento di chiusura conosce sfumature diverse nei vari subsistemi socio-culturali nazionali. Da vari indizi (torneremo su quelli relativi all’Italia) è possibile ipotizzare che, nel Vecchio Continente, esso sia più radicato nell’Europa del Nord e meno nell’Europa del Sud e che, tra Europa e Nordamerica, lo sia di più nella seconda.

Induce a questa interpretazione un’analisi del fenomeno inverso, quello che può essere descritto come l’internazionalizzazione dei prodotti gastronomici e del loro consumo. Come tutti i fenomeni umani, l’internazionalizzazione del cibo e della tavola non ha un’unica causa e un’unica valenza, bensì presenta cause e valenze plurime e differenziate. La tendenza dei prodotti e dei consumi alimentari a uscire dai confini e ad essere scambiati, acquistati e distribuiti ovunque è parte del generale processo di globalizzazione. La domanda di cibi “etnici†è promossa dai flussi migratori che, insieme ai viaggi degli abitanti del Nord del mondo e all’azione dei media, fanno conoscere a una platea via via crescente di potenziali consumatori nuovi prodotti locali. A sua volta l’offerta è sostenuta da una miriade di attori economici, che vanno dal negozietto che offre cibi da asporto alle grandi multinazionali.

Se la spinta originaria - la creazione di un profitto - è condivisa sia dal piccolo fornitore sia dalla multinazionale, il divario è immenso quanto ai mezzi utilizzati e alle conseguenze causate. Tanto sono limitate le risorse e artigianali i metodi del primo, tanto sono imponenti le risorse e avanzati i metodi della seconda. Emblematico il caso delle multinazionali della ristorazione veloce le quali, nella produzione e fornitura di pasti standard da consumare rapidamente in catene di locali presenti ovunque nel mondo, adottano le tecniche organizzative introdotte dall’ing. F.W. Taylor nella produzione industriale. Lo scientific management tayloriano, che scompone il processo produttivo in micro-operazioni semplici e vi addestra il personale secondo una rigida programmazione, è efficacemente applicabile a ogni tipo di produzione in cui varianza, decisionalità e creatività siano riducibili tendenzialmente a zero. Nelle società post-industriale tali caratteristiche riguardano non soltanto le produzioni di merci ma anche quella di servizi, come ad esempio nell’intrattenimento di massa.

L’esempio più noto e convincente è rappresentato dalla multinazionale del fast food McDonald’s, tanto emblematica nella produzione di massa di cibi istantanei da ispirare a George Ritzer (1997), il termine di “Mcdonaldizzazione†per indicare tale variante del processo di razionalizzazione proprio della modernità. Per quanto riguarda il lato dell’offerta, è ovvio l’interesse del fornitore nel contenere al massimo i costi abbattendo qualunque forma di variabilità e imprevedibilità nell’approvvigionamento, nella fabbricazione (pressoché interamente automatizzata) e nella distribuzione del prodotto. Altrettanto ovvio è l’interesse ad abituare il pubblico ad acquistare cibi pronti anziché acquistare materie prime e ingredienti da trasformare autonomamente – tramite un’applicazione personale di tempo, abilità e cura – in vivanda.

Per quanto riguarda il lato della domanda, il successo della Mcdonaldizzazione è assicurato dalla sua capacità di rispondere proprio grazie alla spinta omogeneizzazione dei prodotti, a due fondamentali esigenze dei clienti. La prima esigenza è di ordine economico e consiste nel disporre di un prezzo per un prodotto di cui si conosce esattamente il valore. La seconda esigenza è di ordine psicologico e consiste nel disporre di prodotti che non richiedono impegnative riconversioni, bensì si conformano ai gusti consolidati, reiterando in un’altra città o all’estero il cibo che si è abituati a consumare nella propria città. Non a caso l’espansione mondiale del modello McDonald’s fu originata nel secondo dopoguerra dalla propensione di un consumatore forte come quello americano di richiedere e ottenere, ovunque andasse nel mondo, beni e servizi simili, e se possibile identici, a quelli fruiti in patria. Come osserva Ritzer (1997: 26): “McDonald’s offre prevedibilità, la garanzia che i prodotti e i servizi offerti dalla compagnia saranno gli stessi nel tempo e da un posto all’altro. Si sa che l’uovo McMuffin consumato a New York è, a tutti gli effetti, identico a quello che si può mangiare a Chicago o Los Angeles. Come è altrettanto noto che quello che si può ordinare la prossima settimana o l’anno prossimo sarò identico a quello che si mangia oggi. Dà un grande senso di serenità sapere che McDonald’s non fa sorpreseâ€.

Pressoché inarrestabile a livello di massa, tuttavia l’omogenizzazione dei prodotti e delle abitudini alimentari registra alcune inversioni di tendenza a livello di élite. Un caso di progressivo apprezzamento dell’eterogeneità è rappresentato dall’evoluzione dei gusti in materia di vino manifestata dal pubblico americano. Dopo un lungo periodo nel quale il vino era considerato un inutile snobismo (o, all’opposto, un uso di nicchia di minoranze immigrate), oggi il frutto della vite si è insediato stabilmente nelle tavole americane più qualificate. Superata la fase iniziale della pura e semplice importazione di etichette francesi, la lista si è arricchita di nuovi produttori, nazionali (California) e internazionali (oltre alla Francia, l’Italia, la Spagna, il Cile, l’Australia etc.). Questa fase si è ispirata al modello Parker (dall’enologo fondatore dell’autorevole Wine Spectator), basato su un vino corposo, tanninico, “barricato†e quindi profumato di legno. Per farsi accettare, dunque, il vino ha dovuto passare per un processo di omogeneizzazione, che desse vita a un prodotto standardizzato (ancorché di qualità), affidabile in tanto in quanto “prevedibileâ€. Da vari sintomi - tra cui il primo posto conquistato nel 2005 nell’import americano dai vini italiani, che sono assai diversificati - si può invece supporre che, via via che si diffonde negli Stati Uniti una cultura enologica, l’eterogeneità cominci ad essere progressivamente più apprezzata.

3. Cuochi o guerrieri?

Passando dalla funzione del nutrirsi a quella del difendersi, non è mia intenzione stabilire rigidi rapporti di causa-effetto tra ambiti diversi del medesimo sistema socio-culturale; credo tuttavia che sia possibile avanzare delle ipotesi a partire dalla coerenza interna di un sistema. Nel caso americano, uno dei giudizi più sintetici ed efficaci che mi sia capitato di incontrare è quello che raccolsi dal cappellano della brigata italiana di paracadutisti Folgore a conclusione della missione Onu in Somalia nel 1994: “gli americani sono un popolo generoso, ti danno l’anima: però come dicono loroâ€. A un abitante del Vecchio Continente, in particolare nel suo versante meridionale e di cultura cattolica, dominato dall’approccio dell’et-et, l’approccio americano aut-aut appare frutto di due componenti, entrambe centrali nella storia dei valori nordamericani: quella religiosa (calvinista) dei padri Pellegrini e quella scientifico-tecnologica tayloriana fondata sulla one best way, la soluzione ottimale ai problemi. È facile che un approccio simile, legittimato dal successo economico conseguito e dalla leadership politica esercitata, sia portato, più che a mettere in discussione i propri assunti culturali, a estenderli al resto del mondo.

In questa prospettiva, il politologo britannico J. Gray (2004) ha spiritosamente ma non infondatamente osservato che gli americani ritengono che tutti i popoli del mondo sono americani che non sanno di esserlo. Il convincimento, condiviso da alcuni settori dell’élite degli Stati Uniti, di avere una missione nel diffondere l’American way of life, agli inizi del Ventunesimo secolo ha registrato una drastica radicalizzazione con l’avvento al potere del Presidente George W. Bush e del gruppo ideologico noto come neo-con, da cui egli trae ispirazione e collaboratori. Rispetto alla “normale†identificazione dell’American way con la best way, tuttavia, questo orientamento ideologico presenta due accentuazioni in riferimento non solo al senso comune del cittadino medio ma anche in riferimento al pensiero conservatore tradizionale (realpolitico alla Kissinger, per intenderci): la prima è l’unilateralismo (nei confronti degli amici) e la seconda (nei confronti dei nemici) è l’uso privilegiato della forza.

Una vivida illustrazione del divario che esiste oggi tra americani ed europei è nell’analisi del neo-con Robert Kagan (2003), a detta del quale i primi sarebbero i figli di Marte e i secondi i figli di Venere. Con questa metafora l’autore descrive la disponibilità degli americani di difendere con le armi, ed eventualmente ad ampliare, quella parte di mondo (l’Occidente) dove vigono il mercato, la democrazia e la tutela dei diritti umani, un compito cui ormai l’Europa (con l’eccezione della Gran Bretagna) avrebbe definitivamente rinunciato. In un simile contesto è inevitabile che altri approcci al complesso nodo della pace e della guerra (il più serio tra quelli che un governo e una collettività debbano affrontare) ne escono svalutati e talvolta addirittura ridicolizzati.

Qui è particolarmente delicata, ma anche feconda, la posizione dell’Italia, una nazione che le circostanze politiche dell’età moderna (innanzitutto il mancato processo di unità e centralizzazione, determinato dalla presenza di una grande entità sopranazionale come la Chiesa cattolica) hanno esposto a gravi e ripetuti scacchi sul piano strategico. Il divario tra gli effettivi rapporti di forza internazionali e l’irresponsabilità frequentemente mostrata dalle élites (ultima e più disastrosa di tutte la politica bellicista del fascismo) hanno trascinato il Paese in clamorose inversioni di rotta politiche e irreparabili debâcles militari. Da qui il luogo comune dell’italiano imbelle e che “non combatteâ€. È evidente in questo caso lo slittamento del giudizio di inaffidabilità dalla dimensione politica, dove si applica alle élites e ha un fondamento storico, alla dimensione psicologica, che investe tutti gli appartenenti alla collettività e che invece ha scarso o nessun fondamento empirico.

Altrove ho analizzato il “pacifismo ragionevole†degli italiani, che si esprime in una legittima diffidenza nei confronti dell’uso della forza (Battistelli, 2004). La quale, peraltro, viene vista oggi dall’opinione pubblica italiana come una componente, sia pure estrema, della politica, alla quale può essere necessario ricorrere in circostanze di emergenza, ad esempio per difendersi da un’aggressione. Nelle altre circostanze la maggioranza dei cittadini italiani (come d’altronde la maggioranza dei cittadini europei) tende a privilegiare gli strumenti del dialogo e del confronto politico.

Al pacifismo ragionevole espresso dalle opinioni dell’uomo della strada corrisponde simmetricamente quella che può essere definita “un operatività equilibrata†da parte dei militari italiani nelle missioni di peace-keeping. Nei diversi contesti internazionali in cui essi hanno prestato servizio nell’ultimo quarto secolo - dal Libano 1982-1983 alla mission impossible della ricostruzione di un paese sconvolto dalla guerriglia e dalla guerra civile come l’Iraq del 2003-2006 - i soldati italiani hanno complessivamente realizzato un comportamento soddisfacente, basato sulla neutralità nei confronti delle parti in conflitto e sull’empatia nei confronti della principale vittima delle situazioni di crisi: la popolazione civile.

Significativa la valutazione della missione italiana in Libano del 1983 fornita da un gruppo di sociologi americani: “Gli italiani, con il contingente più numeroso, composto da quasi 2.200 uomini giocarono un ruolo molto visibile, da poliziotto in servizio di ronda […] pattugliavano le strade nei ghetti di Beirut sud, mantenevano un alto profilo nei campi di rifugiati di Sabra e Chatila, dove avevano avuto luogo i massacri falangisti. Tenevano aperto ventiquattr’ore su ventiquattro un ospedale da campo che curava gratis i civili libanesi. Si attenevano a una posizione di neutralità senza parteggiare per nessuna delle opposte fazioni†(Segal e Segal, 1995: 70). Altrettanto positivo, dieci anni dopo, il giudizio sulla missione italiana in Somalia formulato da Charles C. Moskos: “Le truppe italiane stanno facendo uno splendido lavoro. È un fatto da notare che attualmente gli americani sono invidiosi perché, diversamente da quanto accade a loro, gli italiani non vengono fatti oggetto di sassaiole†(cit. in Battistelli, 1996: 122). Come ulteriore causa di invidia, significativamente, il maggiore sociologo militare degli Stati Uniti citava il fatto che gli italiani fruivano di “un vitto miglioreâ€.

A mo’ di riflessione sulle priorità che coinvolgono la psicologia umana, quello della cucina sfrontatamente prelibata degli italiani è un tema che ritorna con regolarità nelle polemiche internazionali. Perfino in questi giorni, quando l’opinione pubblica mondiale è preoccupata da una crisi come quella medio-orientale, che appare sempre più aspra e aggrovigliata. A fine agosto il settimanale americano The New Republic dedica un’ampia e astiosa stroncatura della scelta dell’Onu, condivisa da Israele e Libano, di assegnare all’Italia la leadership della rinnovata missione Unifil che dovrà ripristinare la pace e la legalità nel Libano del Sud.

Non è mia intenzione analizzare qui l’interpretazione dei fattori, tutti accuratamente selezionati a sfavore del nostro paese, i quali secondo l’autore dell’articolo sconsiglierebbero di affidarsi agli italiani; né discutere l’insolita tesi secondo la quale il premier israeliano Olmert avrebbe caldeggiato la leadership italiana dell’operazione in quanto sicuro che così questa sarebbe stata votata al fallimento. Altre sono le affermazioni che mi sembrano interessanti, poiché rappresentative non di un umore individuale ma di uno stereotipo duro a morire, oltre che pertinenti con l’oggetto della nostra riflessione. Scrive l’editorialista di The New Republic: “Come sa chiunque abbia mai pranzato con i soldati italiani, l’esercito italiano marcia sulla propria pancia meglio forse di ogni altro. Ma quando ha difronte il duro compito di mantenere la pace, bene, diciamo solo che [gli italiani] mangiano meglio di quanto combattano†(Kahn, 2006).

Posso confermare, per averlo più volte constatato di persona, che, effettivamente, la mensa dei contingenti italiani in missione è, nelle condizioni date, buona e, paragonata a quelle degli altri, ottima. Tale opinione è condivisa dai componenti dei contingenti stranieri (in particolare di lingua inglese), nei quali ho rilevato la propensione a visitare i colleghi italiani intorno all’ora di pranzo e di cena. Piuttosto, fa riflettere che questo dato venga citato come un capo d’accusa. Sarebbe dunque vero l’irriducibile antagonismo che opporrebbe la convivialità alla bellicosità, la cucina al campo di battaglia, Bacco a Marte; il che alimenta una punta di dispregio per chi, come gli italiani, indulge in un’attività quale la cucina, poco consona all’ideale del guerriero.

Ma si tratta di una verità parziale. Nella realtà le cose sono più sfumate e più complesse. In una missione di peace-keeping (che sia veramente tale, e non una formula per rendere presentabile una guerra), il soldato deve essere in grado tanto di far osservare il mandato ricevuto dalla comunità internazionale, quanto di farlo arrecando meno danni possibili alla popolazione e anzi aiutandola. Si tratta di avere rispetto sia dei fini della missione che si serve, sia dei mezzi usati per realizzarli. I primi non sono nella disponibilità dei soldati e dei loro comandanti sul campo, dato che gli uni e gli altri eseguono le decisioni prese dagli legittimi organi nazionali e internazionali; i secondi invece sì. Nello stesso tempo, se i mezzi li scelgono i militari sul campo, non è facile uniformarli a semplici ordini. Il comandante può ordinare di distribuire i pacchi di riso, ma difficilmente può ordinare e controllare con quale atteggiamento essi vengono distribuiti. Si può lanciarli alla folla che preme per riceverli. In alternativa si può scendere dal veicolo sul quale si viaggia e consegnarli a mano: addirittura con tutte e due le mani, in certi casi.

4. Osservazioni conclusive

Dal quadro, ma meglio sarebbe dire dall’elenco di temi, che ho abbozzato, derivano alcune osservazioni conclusive. Sul piano del metodo voglio sottolineare che una comparazione tra culture, come quella che ho proposto qui tra la cultura italiana e quella americana, ha come obiettivo la valorizzazione degli aspetti positivi, non la formulazione di una graduatoria o, peggio, di una lista di buoni e di cattivi. Comprendere le specificità e accettare le identità nazionali non significa sottoscrivere un’impostazione nazionalista. La sottolineatura degli assets culturali degli italiani non implica la sottovalutazione delle (numerose e serie) debolezze della nostra cultura: per citarne una soltanto, basti pensare ai risvolti altamente critici di un connotato altrimenti positivo come la flessibilità, quando diventa inosservanza delle regole. Allo stesso modo, la mia analisi critica di alcuni tratti della cultura degli Stati Uniti è ben lontana dal rappresentare il rifiuto di una realtà come quella americana, complessa e ricca di elementi positivi (si pensi per tutti al valore dell’onestà, che presenta a livello popolare una diffusione difficilmente eguagliata in altre società).

Ribaditi questi presupposti, resto dell’idea che l’approccio italiano alla relazione con gli altri – in ambiti tanto diversi quali la tavola e l’uso legittimo della forza – rappresenti una risorsa per l’umanità. Ciò in particolare per l’Occidente, e per il suo paese-leader i quali, a partire dall’11 settembre 2001, devono confrontarsi con il fallimento di quello che si illudevano fosse un rapporto aproblematico e soddisfacente con il resto del mondo.

Uno dei principali risultati di una relazione di effettiva parità e accettazione dell’altro consiste nella consapevolezza che ciò che è soddisfacente per noi può non essere soddisfacente per l’altro. Nell’ultimo quinquennio, in cui le armi del terrorismo e della guerra l’hanno fatta da padroni, è diventato normale negare questo dato. Molti politici e leader d’opinione si arroccano nella posizione che gli altri ci contrastano non per ciò che noi facciamo, bensì unicamente per ciò che noi siamo. Si tratta di quella che Fornari (1966) chiamava l’elaborazione paranoica del lutto: un atteggiamento che ci esonera dall’interrogarci se ciò che stiamo facendo è giusto, esportando tutta l’ingiustizia sull’altro. Da qui alla costruzione sociale e politica del nemico, il passo è breve. Prima di compierlo, l’altro andrebbe conosciuto meglio. Magari a tavola. Si farebbero varie scoperte. Per esempio che non esiste un altro unitario e indistinto, ma che esistono gli altri. Con qualcuno dei quali il rapporto è effettivamente difficile o addirittura impossibile, diventando una necessità difendersi. Mentre con i restanti basterebbe comprendere le differenze e confrontarsi con esse, alla ricerca non di ciò che divide ma di ciò che unisce. Magari, anche se ciò può dare fastidio a qualcuno, sedendosi a tavola insieme.

* Facoltà di Sociologia, Università di Roma La Sapienza - Archivio Disarmo, Roma

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