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La recente riforma della Rappresentanza Militare è una delega in bianco? PDF Stampa E-mail
La promozione del dibattito politico culturale rappresenta per AMID una delle sue finalità essenziali. Per questo riceviamo e pubblichiamo volentieri un intervento dell'amico Kronos critico rispetto alla recente norma di legge che prolunga il mandato della Rappresentanza Militare e concede la facoltà di un suo immediato rinnovo. AMID come sempre è a disposizione di tutte le voci e di tutte le posizioni che, in piena autonomia, intendono confrontarsi sull'argomento. La riflessione di AMID sulla questione intende confermare quanto asseriamo da tempo, sottolineando quanto l'attuale Rappresentanza Militare sia lontana dall'essere un reale e concreto strumento di autotutela del personale militare.

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FRANKESTEIN RAPPRESENTATIVO

“….DEL CONSENSO E DELLA GIUSTIFICAZIONE…”

“deleghe in bianco come assegni”

Recentemente è stato prorogato il mandato rappresentativo a 4 anni e contemporaneamente inserito la rieleggibilità. Si vanta da più parti questa variazione come una delle grandi conquiste degli ultimi tempi. Le premesse per l’innalzamento dello spazio temporale a 4 anni sono motivate affinché sia data la possibilità ai rappresentanti di portare a termine sia il contratto economico che quello normativo. Allo stesso tempo è stata inserita la possibilità che gli stessi delegati potessero essere rieletti per un altro mandato. D’altra parte, alla pari di altre cariche pubbliche, politiche o sindacali, tanto in un consiglio comunale quanto in quello provinciale sia la durata presunta che la possibilità di rielezione sono dati di fatto in linea con altri comparti.

Il punto che accomuna questi due passaggi sembrerebbe il fatto che bisogna dare una “chance” alle persone capaci e volenterose per continuare a fare bene il proprio lavoro. In altre parole, se un gruppo di lavoro pianifica, elabora una piattaforma contrattuale è giusto che lo faccia a lungo raggio, tenendo conto di tanti aspetti e delle compagini politiche che possono cambiare o semplicemente cambiare idea. Il presupposto di questo ragionamento è che il processo per la selezione, attraverso il consenso, abbia portato il meglio del meglio dei candidati disponibili. A sua volta, i candidati, investiti dall’onore di rappresentare gli altri si danno da fare per non deludere i colleghi. Fin qui, sul piano teorico è giusto pensare che la durata per fare il rappresentante, di qualunque settore parliamo (politica, sindacato, imprenditoria), sia congruente con un minimo di tempo che garantisce di comprendere, conoscere e preparare.

Ma, la teoria è una cosa e la realtà un’altra! Cosicché la teoria stessa è stata formulata con le dovute correzioni. Le società hanno imparato ad elaborare dei contrappesi che stanno tra la delega data e ricevuta nel rappresentare e la possibilità di venire meno a questa per propositi esclusivamente personali. Sul fatto che vi sia una asimmetria tra chi governa e chi è governato, tra chi rappresenta e chi è rappresentato è un dato di fatto che già ai primi del “700, diversi autori hanno ampiamente evidenziato. Basti dire che le soluzioni rispetto questa sproporzione fanno parte del dibattito contemporaneo. Volendo fare una metafora ricordiamo il parlamentare che ha l’immunità ed il popolo no, oppure che i nostri rappresentanti militari sono sempre andati in missione in albergo mentre il restante personale puntualmente viene ancora oggi aggregato, nonostante le leggi dicono diversamente.

L’essenza delle democrazia si gioca sulla giustificazione e sul consenso più o meno accettato di questa disarmonia. Bene sarebbe se non ci fosse sperequazione ma se c’è, occorre che sia in qualche modo giustificata da chi esprime la delega. In altre parole, laddove stenta ad esplicitarsi, a rendersi credibile il perché di questa asimmetria, ecco che ci si avvicina sempre di più allo stato assoluto e poco democratico. Alla virtualità dei principi egalitari ed alla distanza enorme tra i Rappresentanti ed i rappresentati.

Questo sistema di bilanciamento, di giustificazione, può essere interno o esterno alla carica per cui si esprime la delega, si manifesta attraverso la fiducia o sfiducia verso quella componente che non sta ai patti. Molteplici sono i sistemi in cui è possibile far valere il proprio dissenso rispetto alla volontà espressa al momento del voto. Ad esempio nell’ambito dei partiti vi è la possibilità di disdire la tessera e non rinnovare esprimendo il pieno dissenso. Vale lo stesso discorso nei sindacati, in qualunque momento si ha la possibilità di lasciare una sigla per iscriversi ad un altra. Più sbrigativi e sicuramente più efficienti, nell’imprenditoria gli amministratori delegati sono automaticamente rimossi al mancato raggiungimento degli obiettivi. Nell’ambito di un consiglio comunale quanto in quello provinciale e regionale o nel parlamento stesso vi è la possibilità di sfiduciare il governo ed aprire una crisi.

Il punto su cui intendo ragionare in questa occasione è quello in cui i nostri rappresentanti, patrocinando e osannando con i politici la proroga del mandato a 4 anni, non hanno pensato a questa sorta di contrappesi. Una giustificazione del perché un rappresentante ha bisogno di tanto tempo e non quella per cui l’elettore dovrebbe attendere in silenzio il tratteggiarsi degli eventi. Addirittura, politici di opposti schieramenti, nel segno della “politically corretly”, del bypartisan, si sono lasciati andare a dichiarazioni stucchevoli. Da una parte dicono “..si rafforza il ruolo dei consigli… riconoscendo diritti più adeguati al ruolo..”, mentre dall’altra, “..il governo ha mostrato sensibilità assumendosi l’impegno per la riforma della rappresentanza..”. Sembra una cosa autoevidente, valida in se, unisce le posizioni al di là degli schieramenti. Un po’ come è avvenuto recentemente sui 4 referendum sugli embrioni, la coscienza e la visione della vita si è posta al di sopra degli interessi partitici. In compenso l’astensionismo ha prevalso con il 75%. I cittadini rispetto ai quesiti, non hanno detto si o no ma hanno preferito, con la non-partecipazione, rilasciare ai politici la decisione di cosa fare.

Siamo nell’epoca del NON-CONSENSO DA INTERPRETARE con i dovuti distinguo. Troppo comodo! In quel NON-DIRE che dice, sociologi, politologi, psicologi, filosofi avranno da lavorare sicuri cha dato l’elevato livello del dibattito ai cittadini conviene di più stare a casa a guardare una partita. In America ormai abbiamo conoscenza che la partecipazione al voto si aggira intorno al 45% che diviso nei due schieramenti principali, che si giocano la vittoria sul filo del rasoio, dà la possibilità con un risicato 25% di votanti di determinare la politica dell’intero paese (per non dire del mondo). E’ chiaro che riducendo il numero degli elettori le incertezze e l’affanno su come finirà la campagna elettorale diminuiscono. L’elettore è stato portato scientificamente alla disaffezione verso la non-partecipazione. Siamo al governo di pochi su molti, una sorta di oligarchia democratizzata. E’ un circolo vizioso che parte da una asimmetria originariamente giustificata, poi aumentata, non più dimostrata la cui reazione di non-partecipazione ha aumentato la disarmonia. Più aumenta la distanza con chi rappresenta più si amplia la non partecipazione. Il politico, rappresentante nel giustificare e preoccuparsi di avere armi e mezzi a disposizione finisce di non preoccuparsi del proprio elettore. Più o meno la stessa cosa sta succedendo in Europa e per riflesso a casa nostra.

Troppo comodo!

Non esiste nella nostra delega ai rappresentanti alcun vincolo, se non quello di rinnovare o meno il loro mandato alla scadenza. Per ben 4 anni, né gli elettori, né i Cobar ai Coir e ques’ultimi al Cocer possono sfiduciare o mettere in dubbio l’operato degli uni sugli altri. Niente di niente! In tutte le riforme della rappresentanza non ho avuto modo di vedere inserito in alcun modo questo principio, questo contrappeso. Non importa se si tradisce la delega, non importa se non si presenzia alle riunioni, non importa se hanno ricevuto palesi benefici personali (puntualmente riscontrati in ogni mandato trasferimenti estero e nazionali, passaggio ufficiale, cambio incarico ecc.), ricevuto l’imprimatur del rappresentante uno lo conserva per tutta la durata del mandato. Addirittura quando i più sensibili, i più autorevoli come numero di voti, si sono dimessi sono sostituiti con chi li precede, fino ad arrivare a quel rappresentante che con un solo voto ha l’onere e onore per deliberare, parlare, giudicare, rappresentare e portare avanti i suoi ragionamenti. La cosa senza alcuna giustificazione mi da alquanto fastidio quando leggo o sento affermare questo o quel delegato che rappresenta “330mila militari”, ovvero la totalità. Pure i politici soliti ai populismi e slogan hanno il pudore di non fare dichiarazioni di tale portata. Si guardano bene da dire rappresento milioni di cittadini, al limite fanno riferimento alle preferenze personali attribuite. Perfino quando parlano a nome del partito fanno riferimento alla percentuale complessiva frutto dei singoli parlamentari e non a nome di tutto il gruppo. A nome di tutto il gruppo, partito o sindacato parla solo il Capo Gruppo parlamentare o il Segretario per il resto ognuno si limita a dichiarazioni a nome proprio. Quindi, se qualcuno vuole parlare a nome di qualcun altro questo può essere fatto, attualmente, solo dal Presidente e non dai singoli delegati spesso in contrasto gli uni con gli altri. Purtroppo queste sono le regole[if !supportFootnotes][1][endif], mai cambiate, che vengono tollerate “scientificamente” dagli stati maggiori e politici per generare confusione, malcontento ma soprattutto non-partecipazione.

Come si può argomentare la giustezza che per un solo voto si ha diritto a parlare a nome di altri, di tanti altri, per ben quattro anni? Fino a quando possiamo accettare un abbraccio mortale che si potrebbe celare dietro una delega mal preposta? Come è possibile non fissare un quorum minimo di voti per poter fare il rappresentante? Come si può accettare la mancanza di un sistema di contrappesi rispetto ad una delega in bianco? Oltretutto 4 anni nel 2000 sono altra cosa che nel “78, oggi i cambiamenti, tecnologici, economici, sociali sono così veloci che le dinamiche probabilmente devono essere altre.

Paradossalmente, in principio con la L.382/78, quella esente dalle osannate e svariate modifiche, stavamo molto meglio, perlomeno era più coerente. Dal “78 in poi abbiamo via, via snaturato questo principio di tutela del voto attribuito al collega. In principio il mandato era di due anni senza la rieleggibilità, il legislatore aveva visto bene e aveva dato logica al suo ragionamento. Era sua intenzione semplicemente non creare i professionisti della “contrapposizione e della polemica” e su quest’ottica ha cercato di dare in tutto l’articolato legislativo omogeneità. Una sorta di piccolo sistema filosofico in cui, fissati i principi primi, gli articoli davano conseguenza e coerenza all’intera legge. I contrappesi erano nella struttura stessa della legge! Non essendoci la possibilità di sfiduciarli o di disdire le tessere, si è pensato che due anni erano abbastanza per fare sia bene che male. Avevamo lo svantaggio che se era un buon rappresentante non aveva tempo a sufficienza per lavorare e dimostrarlo, viceversa, eravamo avvantaggiati se era un pessimo rappresentante e dopo solo due anni se ne andava a casa. Addirittura non vi era la possibilità di essere rieletto immediatamente quindi ne di perpetrare il bene o il male. D’altra parte, non essendoci la missione forfetaria, la possibilità di alloggiare in albergo, di indossare gli abiti borghesi, di fare i comunicati stampa senza il rischio di denunce e punizioni, fare il rappresentante effettivamente voleva dire fare i missionari, perché pretendere tanto? In questo gioco strano della tutela del personale militare, vi era un elemento che oggi manca, quello della partecipazione del personale. C’era tanta buona volontà, condivisione e speranza. Le sale cinema aeroportuali colme di personale davano vita ad uno spettacolo acceso tra candidati. Coloro che uscivano fuori dalla selezione per l’elezione, veramente avevano la forza morale per potersi dire portavoce di interessi collettivi. Si che c’era attenzione del loro operato, alle delibere e alle loro dichiarazioni. Punizioni e vessazioni hanno fatto storia sulle spalle dei primi pionieri. Bastava poco una dichiarazione personale per essere puniti e denunciati. In quei primi momenti il malcontento era comune, conosciuto ed acceso. In tale contesto se ci fosse stata una durata del mandato superiore, la rieleggibilità forse avrebbe fatto la differenza. Nel momento della partecipazione non c’era la rieleggibilità viceversa nell’estraneità e indifferenza degli elettori ecco arrivare la ciliegina sulla torta della proroga e rieleggibilità.

Cosa è successo da allora ad oggi? Ha ancora senso parlare in questi termini?

Prima si è detto che due anni erano pochi per un mandato e si è passati a tre[if !supportFootnotes][2][endif], poi si è aggiunto il gettone di presenza per le riunioni dei Rappresentanti. Successivamente, si è aggiunto il fatto che i rappresentanti erano esonerati dall’aggregazione e potevano, durante le missione, alloggiare in albergo. Poi, ad un certo punto non si capisce dove e quando si è detto che i coir[if !supportFootnotes][3][endif] e i cocer possono stare fino quattro settimane al mese a Roma in missione per espletare la rappresentanza. Grazie ad un abile gioco fatto sull’interpretazioni delle Segreterie Permanenti e dei Gruppi di Lavoro e soprattutto alla disponibilità di Stati Maggiori ecco giustificate le quattro settimane non comprese nella legge. Si è aggiunta la possibilità di fare comunicati stampa[if !supportFootnotes][4][endif] attraverso delibere approvate a maggioranza a firma del presidente, cosa che invece fanno tutti. Non a titolo personale ma in qualità di rappresentante. Qualcuno, per darsi tono si firma Presidente di categoria, quando sappiamo benissimo che non esiste il Presidente[if !supportFootnotes][5][endif] di categoria, bensì il Presidente dell’organo di rappresentanza ovvero il più alto in grado. Nessuno dice niente e si preoccupa di queste incongruenze, passano in silenzio in un clima di disinteresse e non partecipazione. Sempre nell’ottica di dare maggiore forza ai nostri consigli cocer è stata obbligata l’amministrazione[if !supportFootnotes][6][endif] a reciproci scambi di informazione con apposite riunioni. In caso di contrasti interpretativi con gli Stati Maggiori i cocer possono adire direttamente Consiglio dei Ministri e Ministro Funzione Pubblica per esprimere le loro osservazioni. In mezzo a queste scomposte modifiche, ci sono stati due mandati (VII mandato e quello attuale) a cui è stata data una proroga, giustificate ad arte, direttamente dal politico e non dagli elettori. In questi 27 anni tutte le modifiche apportate sono state frutto di un copia e incolla da altre situazioni senza badare all’omogeneità e coerenza della legge originaria e dei principi posti a fondamento.

Si sono mischiate leggi, circolari, norme modificate e consuetudini accettate. Un minestrone “buono” o solo per coloro che si apprestano a fare i rappresentanti che a prescindere dalla quantità di consenso ricevuto, dalle competenze tecniche necessarie, dal lavoro individualmente e collegialmente prodotto, dalla presenza di evidenti conflitti di interessi, parlano, deliberano, scrivono a nome proprio. Di questo aumentato peso e benefici dei nostri Rappresentanti abbiamo ricevuto altrettante grazie?

Quando si inizia ad invertire il trend? Quando si ricomincia a parlare di elettore?

In tutti i passaggi quello che non è mai mancato è la giustificazione alla modifica della legge originaria, sarebbe interessante fare la storia delle giustificazioni per ogni cambiamento. Molto probabilmente ci renderemmo conto di quanto di parte siano state le motivazioni. Tutte ragioni autoreferenziali, volte non a recuperare il rapporto tra elettore ed eletto ma a rafforzare la rappresentanza in se stessa indipendentemente dal consenso. La chiave di volta non è stata quella di dare valore e peso ai concetti di cui ognuno poteva essere portatore, ma di rafforzare astrattamente lo strumento. Il consenso sia in positivo che in negativo è stato messo da parte, dimenticato. Anzi si è fatta una lotta inconscia al consenso, alla partecipazione. Di fatto oggi avviene che ogni rappresentante fa la sua comunicazione, ha il suo sito, la sua news letter, spesso in contrasto con i colleghi del coir o del cocer, che mette confusione e genera disaffezione. Chi ha ragione? Si chiede la gente. L’esercito o l’Aeronautica? Tizio o Caio? Eppure, la vecchia L.382/78 e il susseguente DPR 691/79 avevano chiarito bene questo aspetto, la possibilità di esasperati personalismi.

Cosa ci si può aspettare in ambito interforze con queste forti accentuazioni? Non si pretende una visione monolitica, esente dal dibattito plurale si tratta solo di voler conoscere quale piccolo-sistema filosofico si cela dietro questa o quella richiesta. Dietro la parametrazione, il riallineamento quali sono i motivi coerenti per l’approvazione o negazione della proposta? La maggior parte di noi ormai è convinta che la politica partitica sia la sostanza della differenza. Questa mancanza di Capo Gruppo, di Segretario, di portavoce unitario all’interno della Rappresentanza, nell’assoluto libero arbitrio ha generato frammentazioni difficilmente riconducibili. Su questo punto abbiamo ancora chi osanna questo nuovo sistema e chi lo condanna con lo stesso vigore e ragione! Ma chi ha ragione?

In buona sostanza abbiamo delle correnti politiche senza avere le tessere e dato la delega per fare questo lavoro. Si ha l’impressione che ognuno bussa al proprio politico e cerca la soluzione senza l’esigenza di una condivisione tanto della base quanto dei suoi colleghi di rappresentanza. Se va bene, va bene, altrimenti la giustificazione “ad hoc” si trova ed avrà la sua dignità tanto quella opposta. I sofisti conoscevano bene questo principio e come attestava Protagora per ogni affermazione ve ne una di segno opposto di uguale valore, si tratta solo di conoscerla! Chi ha capito bene la situazione sono gli stati maggiori ed i politici che assecondando questo atteggiamento svincolato da ogni sistema di garanzia per l’elettore lasciano perdere ogni esigenza di formalità legislativa e si guardano bene dall’evidenziare e ricomporre l’atteggiamento personalistico. Salvo richiamare di tanto in tanto qualche delegato per i toni accesi o non consoni. Ciò provoca quel atteggiamento di malevolenza e sfiducia non più solo verso la Rappresentanza in quanto strumento ma in quanto attori di una commedia già vista. Oggi si allontanano da questo sistema rappresentativo non solo coloro che lo ritengono ampiamente superato dalla libertà associativa, ma anche coloro che lo vorrebbero e lo trovano politicizzato, autonomo senza alcun vincolo con i propri elettori.

Vedete amici, al fine di evitare di essere frainteso, in senso relativo la durata del mandato a 4 anni, oppure la rieleggibilità, sono principi difficilmente criticabili. Sono regole che garantirebbero coloro che rappresentano gli altri, ma agli elettori chi ci pensa? Nella politica quanto nel sindacato vi è la possibilità di disdire la tessera e partecipare il proprio malcontento, nonostante tutto è ancora poco. Nel mondo politico e sindacale si conosce direttamente in numero di consensi persi quanto costa una decisione piuttosto di un'altra. Nella rappresentanza chi si cura del malcontento degli elettori? Il principio di fare comunicati stampa messo a disposizione del Consiglio è un ottimo strumento, nelle mani dei singoli genera confusione e disaffezione. Sarebbe come dire che a fronte di un principio di autonomia economica di un sistema rappresentativo, una volta ottenuta si distribuiscono le risorse ai singoli delegati. Ebbene se il principio viene così distorto non voglio alcuna autonomia economica.

Nell’alveo del cosiddetto pluralismo costituzionale, nelle more del diritto di opinione si nasconde un libero autoreferenzialismo svincolato dall’elettore dalla possibilità di dire basta in alcun modo se non dopo lunghi quattro anni.

Nei ben 27 anni trascorsi, in tutte le proposte e modifiche alla rappresentanza non ho trovato alcun indizio che facesse trasparire la possibilità da parte di qualcuno di sfiduciare nessuno. Mai una “propostina” a garanzia dei rappresentati. Non ho avuto modo di vedere proposte di modifiche che si facciano carico della Responsabilità di chi rappresenta, ad esempio il quorum minimo di elettori oppure quello per essere eletti. Anche il quorum minimo degli elettori si dovrà pur un giorno cominciare a considerare. Di fronte ad una percentuale di votanti, come quella attuale, che si aggira tra il 40 e il 50%, suddiviso tra tanti candidati, non possiamo avere lo stesso numero di rappresentanti dovremmo farci carico anche di chi non si esprime, oppure non accetta questa logica. Perché non si parla mai di ridurre il numero di rappresentanti di fronte alla non partecipazione degli elettori? Perché non dovrebbe essere una responsabilità di chi intende parlare a nome di altri quella di recuperare la non-partecipazione? Quale è la minoranza minima per cui è accettabile possa esercitare una delega? Perché non si parla mai di rendere pubblici i verbali di riunione in cui sono evidenti le opinioni, il dibattito e le presenze di ogni rappresentante? Lo si fa per il Parlamento e per la nostra rappresentanza no. Perché non si chiede agli elettori se questa rappresentanza ha ancora senso oppure è superata? Sono domande scomode che in tutti questi anni solo poche persone hanno evidenziato. E’ meglio soprassedere e parlare di potere contrattuale, negoziale, assembleare senza nessun vincolo per chi lo deve esprimere. Ci manca solo che si possano votare l’aumento di stipendio o gettone di presenza (quest’ultimo già è avvenuto) e poi non manca niente. Per non parlare del futuro in cui qualcuno auspica, probabilmente prendendo spunto dalla politica, che i cocer siano votati dai cobar oppure dagli elettori stessi, senza parlare di pesi e contrappesi che comportano una rappresentanza popolare.

Al di là della condivisione o meno di tutta l’allora formula rappresentativa, in cui oggi appare pleonastico sottolineare l’incapacità, molti erano convinti sin dall’inizio che la rappresentanza si sarebbe occupata delle “mele e pere”. In compenso si deve dare atto che questa prima legge aveva una certa coerenza e teneva conto di pesi e contrappesi. Gli innesti, tagli, rattoppi, apportati in quasi 30 anni hanno creato un FRANKESTEIN rappresentativo. Un misto di legge, norme, circolari, consuetudini che non solo non hanno niente a che vedere con quella originaria concezione di tutela ma sono altrettanto mostruose in un contesto quotidiano completamente superato. Abbiamo un calderone in cui la frammentazione e i personalismi vanno a braccetto con il disinteresse e la mancanza di partecipazione, con il rischio che l’avidità faccia da padroni. Non dimentichiamoci che con l’attuale sistema di missione forfetaria, di 100 euro giornalieri, diventare rappresentante cocer o coir con istanza a Roma è una occasione ghiotta per decidere di candidarsi. Basterebbero belle parole, una faccia simpatica, nel disinteresse diffuso, per passare il turno e fermarsi 4 anni a fare bene o male a seconda delle propensioni. Dopo di ché, grazie alla visibilità, alle GIUSTIFICAZIONI ad arte, per questa o quella decisione assunta durante il mandato per ripetere l’esperienza. Nel frattempo matureranno le condizioni per richiedere rieleggibilità per il terzo mandato.

Siamo figli della Frankestein-mania, in mancanza di originalità si taglia e si cuce, si copia e si incolla in tutti i settori. Abbiamo avuto un riordino fatto a pezzi che ha accontentato pochi. Una ristrutturazione territoriale a sobbalzo senza garanzie per gli elettori. Indennità operativa distribuita a singhiozzo e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di invertire il trend, di cominciare dal principio, separando la luce dal buio, la terra dal mare e costruire un nuovo schema di tutela contestualizzandolo al nuovo modello di difesa, alla nuova figura professionale del militare, tenendo conto soprattutto dell’insieme europeo. Forse facendo così si può creare la speranza di uscire dalla Frankestein-mania, recuperando la partecipazione, l’elettore e l’interesse verso questa nostra forza armata. Ricerchiamo quella GIUSTIFICAZIONE originaria per la quale accettiamo che qualcuno parli a nome nostro per capacità, disponibilità e responsabilità, in una parola per autorevolezza.

La politica ha imparato fino ad ieri a giustificare bene la non-partecipazione con il disinteresse, il menefreghismo e l’indolenza dei cittadini. Dopo i recenti referendum dovendo interpretare il NON CONSENSO si è parlato di posizioni ragionate e con la stessa dignità di chi aveva espresso il voto. Vogliamo, in qualche modo, farci carico anche di coloro che sono stufi e non partecipano? E’ possibile dare una patria anche a queste persone?

Ora il problema che si pone è questo: è meglio avere dei rappresentanti che hanno il tempo per fare il contratto oppure fare un contratto con gli elettori che in caso di malevolenza possono perdere la delega ricevuta?

Kronos il Lupo della Sila

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[endif]

[if !supportFootnotes] [1][endif] DPR 4/11/79, n.691- RARM – Art. 12 “Tutte le operazioni inerenti le rappresentanze militari sono svolte dal personale per “motivi di servizio”. .. “Ai singoli delegati nella loro qualità di componenti dell’organo di rappresentanza è vietato: b) rilasciare comunicati e dichiarazioni…. al di fuori degli organi di appartenenza”; c) avere rapporti di qualsiasi genere con organismo estranei alla FF.AA.; f) Assumere iniziative che possano infirmare l’assoluta estraneità delle FF.AA alle competizioni politiche.

[if !supportFootnotes] [2][endif] DPR 28 Marzo 1986, art. 3

[if !supportFootnotes] [3][endif] DM 9/10/1985 - R.I.R.M. – Art. 13 PERIODICITA’ DELLE RIUNIONI “.. Di regola i cobra si riuniscono almeno una volta al mese, i Coir almeno una volta ogni due mesi, le sezioni Cocer e il Cocer interforze almeno ogni tre mesi”

[if !supportFootnotes] [5][endif] DM 9/10/1985 - R.I.R.M – artt. 5 e 6

[if !supportFootnotes] [6][endif] D.LVO 12/05/1995, n.195 – artt. 7 e 8; DPR 16/03/1999, n.255 – artt. 15 e 16

 
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