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Costituzione e riforme. Ancora un approfondimento sul referendum. PDF Stampa E-mail

Costituzione e riforme

di Marco Ruotolo da www.costituzionalismo.it

La storia delle riforme costituzionali in Italia è, fino al 2001, storia di revisioni puntuali riuscite e di riforme (più o meno organiche) solo tentate.

In molti casi si è trattato di integrazioni della Costituzione più che di revisioni della stessa. Penso agli interventi relativi al funzionamento e alle attribuzioni della Corte costituzionale (leggi cost. n. 1 del 1948, n. 1 del 1953, n. 2 del 1967, n. 1 del 1989) o all’inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 Cost. (legge cost. n. 2 del 1999) o, ancora, dopo il 2001, all’inserimento nell’art. 51 Cost., dedicato all’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive, dell’enunciato che prevede che “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini” (legge cost. n. 1 del 2003).

Solo in un caso, quello della legge costituzionale n. 1 del 1992, in materia di concessione di amnistia e indulto, compare nel titolo della legge costituzionale il termine “revisione”.

Nell’intitolazione delle leggi costituzionali compaiono, invece, in prevalenza, i termini “modifica”, “modifiche”, “modificazioni”. Anche quando si tentano non puntuali revisioni ma, propriamente, riforme, modifiche che non hanno un oggetto puntuale, che non siano attinenti cioè ad un determinato istituto, ad un singolo tema. È successo nel caso della riforma del Titolo V operata nel 2001 e intitolata, appunto, “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”; succede ora con la riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati ad esprimerci in occasione del referendum dei prossimi 25 e 26 giugno, intitolata “Modifiche alla Parte II della Costituzione”. Ed era successo, tra l’altro, anche nel tentativo di riforma avviato con la legge costituzionale n. 1 del 1997, intitolata “Istituzione di una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali”. Si trattava dell’ultimo tentativo di riforma organica della Costituzione compiuto per il tramite di una Commissione bicamerale, nell’occasione presieduta dall’on. D’Alema. Prima di esso, vanno ricordate le esperienze della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita nel 1983 e presieduta dall’on. Aldo Bozzi, della omonima Commissione parlamentare istituita nel 1992 (inizialmente avente funzioni “di studio” e poi, a seguito della legge cost. n. 1 del 1993, vere e proprie funzioni referenti alle Assemblee) e presieduta prima dall’on. De Mita e poi dall’on. Iotti, del “Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali”, istituito nel 1994 e presieduto dall’on. Francesco Speroni. Tentativi, come detto, falliti, ma non per questo privi di significato. Anzitutto nel senso di aver veicolato l’idea della derogabilità dell’art. 138 Cost., ossia dell’articolo che disciplina il procedimento per la revisione della Costituzione. Basti pensare alla legge cost. n. 1 del 1993, che, nel disciplinare le “funzioni della commissione bicamerale”, introduceva significative deroghe al procedimento di revisione costituzionale quali l’eliminazione della maggioranza dei due terzi nelle seconde deliberazioni e l’introduzione del referendum obbligatorio; o alla legge cost. n. 1 del 1997 che a siffatte deroghe aggiungeva la previsione per cui il progetto o i progetti di leggi costituzionali trasmessi dalla Commissione bicamerale alle Camere sono approvati da queste ultime articolo per articolo “senza voto finale su ciascun progetto, ma con un voto unico sul complesso degli articoli di tutti i progetti”. L’imperativo era – o almeno sembrava essere – quello di semplificare una  procedura che i Costituenti avevano invece pensato per assicurare che gli esiti dell’esercizio di un potere estinto, qual è per sua natura il potere costituente, non potessero essere modificati, se non attraverso una attentissima ponderazione e comunque sempre parzialmente, dai poteri costituiti.

In altre parole, secondo le intenzioni del Costituente, l’esercizio del potere di revisione costituzionale, in quanto esercizio di un potere costituito, non può che svolgersi entro i limiti segnati dalla Costituzione. Dovrebbe essere una tautologia, ma così non sembra più essere. Come, d’altra parte, dovrebbe risultare persino ovvio, senza bisogno di essere giuristi, che la revisione della Costituzione debba essere momento “straordinario” e non “ordinario” di esercizio della funzione legislativa.

Quanto al primo aspetto – distinzione tra potere costituente e potere di revisione costituzionale –sembra che i concetti restino “chiari e consolidati solo nei libri di diritto, mentre nella discussione politica, e anche in quella specialistico-giornalistica, tendono a confondersi” (Dogliani). Il potere costituente sembra aver cessato di essere un concetto limite … una situazione chiusa, un potere estinto (Dogliani). La riprova la si ha se si va a rileggere la relazione introduttiva del Presidente della Commissione bicamerale istituita nel 1997, che accompagnava il progetto di revisione costituzionale della parte seconda della Costituzione trasmesso alle Presidenze della Camera e del Senato. Dopo aver negato l’evidenza, scrivendo che la legge istitutiva di quella Commissione “non prevede alcuna semplificazione rispetto alle procedure previste dall’art. 138”, l’on. D’Alema ragionava di “un percorso che deve consentire … lo svolgimento del più ampio dibattito con il contributo e la partecipazione delle diverse componenti della società civile e, in particolare, di quei soggetti che si sono dimostrati più attenti e sensibili verso il confronto costituente”. Il confronto costituente? Non si tratta, purtroppo, di una svista. Forse nella smania di sottolineare la grandezza dell’operato della Commissione, poco dopo nella relazione si parla di “un processo costituente aperto per un confronto costruttivo, leale, trasparente”, addirittura del “valore del processo costituente, così come esso è venuto affermandosi”. D’Alema arriva persino a parlare di una “necessaria innovazione del patto costituzionale”, della ricerca di un terreno nuovo che “implica inevitabilmente anche l’innovazione di un sistema di valori”. Neppure il Presidente della Commissione dei 75 incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione all'Assemblea costituente si sarebbe spinto fino a questo punto nell’elogio del proprio operato! Ma quello che più preoccupa è la confusione tra i concetti di potere costituente e di potere di revisione costituzionale. Una confusione “confessata e ribadita” (Modugno), che non troppo velatamente cela l’ambizione costituente di una certa classe politica. Ambizione disvelata ciclicamente da coloro che, invocando riforme costituzionali organiche, sostengono la necessità di convocare una – costituzionalmente inammissibile – “Assemblea costituente” (Panunzio).

Quanto al secondo aspetto – la revisione della Costituzione deve essere momento “straordinario” e non “ordinario” di esercizio della funzione legislativa – è agevole rilevare che le maggioranze che si sono succedute alla guida del nostro Paese negli ultimi anni hanno fatto di tutto per ridurre a momento “ordinario” quello che per un costituzionalista, ma anche per una qualsiasi persona di buon senso, dovrebbe essere e rimanere momento “straordinario”. Mi riferisco non solo al fatto che gli ultimi due tentativi di riforma costituzionale – il primo dei quali, quello relativo al solo titolo V, è riuscito, il secondo dei quali, che propone una riscrittura della seconda parte della Costituzione, è ora sottoposto a referendum – sono stati compiuti dalla sola maggioranza parlamentare, senza l’accordo nemmeno di parti dell’opposizione, ma anche al modo in cui, dal punto di vista della scrittura (o meglio della riscrittura del testo costituzionale), si procede alle riforme.  Basti l’esempio richiamato dal collega Ainis in un recente convegno, con riferimento all’attuale progetto di riforma costituzionale, che prevede, tra l’altro, una riscrittura dell’art. 70 della Costituzione (che oggi prescrive: “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”) tale per cui nella nuova versione dell’articolo avremo un testo composto complessivamente di un numero di parole superiore a quelle contenute nei primi 12 articoli della Costituzione (dedicati ai “principi fondamentali”). Un’ansia per il dettaglio che rischia di far definitivamente degradare la Costituzione a legge come tutte le altre. Il rischio è che si perda l’idea della Costituzione come strumento di stabilità e di identificazione collettiva, che si delegittimi il testo costituzionale; con il pericolo – che Rodotà ha di recente evidenziato rifacendosi all’insegnamento di Dossetti – della scomparsa della Costituzione come grande progetto di società, come sede di principi fondamentali. “Ricostituzionalizzare la Costituzione”, questo il monito di Rodotà, evitare che essa perda la sua capacità direttiva che non si misura dal numero di articoli e commi dedicati a ciascun problema, ma dalla nettezza dell’impianto e dalla linearità delle procedure. Riecheggiano i moniti di Calamandrei in Assemblea costituente (seduta del 4 marzo 1947), quando affermava: “Secondo me è un errore formulare gli articoli della Costituzione collo sguardo fisso agli eventi vicini, agli eventi appassionanti, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazione elettorali dell’immediato avvenire in mezzo alle quali molti dei componenti di questa assemblea già vivono. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope”. Mi sento di condividere pienamente questo approccio, anche in considerazione del fatto, prima accennato, che, a partire dalla riforma del Titolo V realizzata con la legge cost. n. 3 del 2001, sembra essersi aperta la strada per riforme costituzionali realizzate da contingenti maggioranze, senza l’accordo nemmeno di parti dell’opposizione: il rischio che si inneschi il circolo vizioso per cui ogni maggioranza, quando è al potere, si fa la “sua” Costituzione sembra tutt’altro che remoto.

***

Vengo, ora, al merito della riforma costituzionale approvata nella scorsa legislatura dal centro-destra, sulla quale si terrà il referendum costituzionale i prossimi 25 e 26 giugno. Vediamo subito quali sono le novità introdotte per quanto riguarda il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni (c.d. devolution):

  1. ampliamento delle “potestà esclusive” dello Stato, per effetto di significative integrazioni del secondo comma dell’art. 117 Cost. Nel testo si fa riferimento alle seguenti “materie”: «promozione internazionale del sistema economico e produttivo nazionale»;  «politica monetaria»; «tutela del credito»; «organizzazioni comuni di mercato»; «norme generali sulla tutela della salute; sicurezza e qualità alimentari»; «sicurezza del lavoro»; «ordinamento della capitale»; «grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; ordinamento della comunicazione; ordinamento delle professioni intellettuali; ordinamento sportivo nazionale; produzione strategica, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia»

  2. riduzione delle materie di competenza concorrente

  3. trasformazione della competenza legislativa regionale di tipo residuale in competenza esclusiva, riguardante ogni «materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» e comunque le seguenti materie espressamente menzionate: «assistenza e organizzazione sanitaria»; «organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche»;  «definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione»; «polizia amministrativa regionale e locale».

Il “nuovo” art. 127 Cost. reintrodurrebbe, peraltro, il limite “di  merito” dell’interesse nazionale che il Governo, previo invito alla Regione a rimuovere le disposizioni pregiudizievoli, può far valere dinanzi al Parlamento in seduta comune che, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei propri componenti, può annullare la legge o sue disposizioni (in questo caso il Presidente della Repubblica, entro dieci giorni, «emana il conseguente decreto di annullamento»).

Già a questo punto, sulla base della mera lettura delle novità introdotte dalla “ulteriore” riforma del Titolo V, ci si può chiedere se essa costituisca un progresso verso il federalismo. Molti studiosi del diritto costituzionale e regionale hanno dato risposta negativa, sottolineando che “l’aggettivo qualificativo ‘esclusive’ aggiunto alle competenze ‘residuali’ delle Regioni non deve impressionare”, in quanto “restano fermi i commi precedenti dell’art. 117 e, in particolare, le competenze esclusive dello Stato per ciò che riguarda ‘i livelli essenziali’ delle prestazioni sanitarie, le ‘norme generali’ per l’istruzione, l’ordine pubblico e l’ordinamento penale” (Bartole e altri). Il che potrebbe voler dire che le competenze “esclusive” regionali non si sottraggono agli interventi legislativi statali che trovino il proprio titolo di legittimazione nell’elenco – peraltro interpretato estensivamente dalla giurisprudenza costituzionale – contenuto nel secondo comma dell’art. 117. Le stesse materie espressamente menzionate come di competenza “esclusiva” regionale sono già, in larghissima parte, di competenza  “residuale” delle Regioni. Anche se – è doveroso rilevarlo – proprio il Governo Berlusconi, espressione della maggioranza che ha voluto la riforma in commento, “si è sistematicamente e rigidamente opposto ad ogni tentativo, sia pur timido, delle Regioni” di esercitare proprio le competenze che sembrerebbe ora volere come “esclusive” delle stesse” (ancora Bartole e altri).

Può dirsi, almeno, che la riforma contribuisca a fare chiarezza sul riparto delle competenze? In sé la espressa menzione delle materie di “certa” competenza regionale potrebbe essere letta come un fatto positivo. Ma, se si guarda al complessivo intervento sul Titolo V, la risposta sembrerebbe dover essere di altro segno. Basti pensare ai dubbi interpretativi che la clausola dell’interesse nazionale potrà generare. Se l’obiettivo era quello di contenere la conflittualità tra Stato e Regioni che in questi anni ha trovato “sfogo” in numerosi interventi della Corte costituzionale, credo che lo stesso potrà essere solo in parte raggiunto. Mi spiego: dopo la riforma del 2001, i molti nodi irrisolti relativi al riparto delle competenze hanno generato un cospicuo contenzioso costituzionale, determinato anche dal fatto che il “nuovo” Titolo V ha ricevuto una tardiva e parziale attuazione da parte del legislatore ordinario. E la Corte costituzionale si è trovata, in un certo senso, a svolgere un ruolo di supplenza da essa senz’altro non gradito. Ora, (re)introducendo il limite dell’interesse nazionale, invece che risolvere il problema della conflittualità si sposta (o si cerca di spostare) l’asse della sua soluzione sul versante  della politica, affidando il compito della decisione al Parlamento in seduta comune che, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei propri componenti, può annullare la legge regionale o le sue disposizioni. Peraltro, sul versante del giudizio di costituzionalità, l’espresso riferimento all’interesse nazionale come limite alla potestà legislativa regionale, pur configurato come limite di merito, può in un certo senso “rafforzare” quella “lettura” giurisprudenziale del riparto di competenze volta ad individuare elementi di “flessibilità” che consentono di avocare al centro competenze che sembrerebbero ormai devolute. Si fornisce, cioè, probabilmente, un ulteriore argomento per consentire deroghe al rigido riparto di competenze legislative prefigurato nell’art. 117 Cost., permettendo di rispondere a quelle “istanze di unificazione”, le quali, sul piano dei principi giuridici, “trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica” (Corte cost., sent. n. 303 del 2003).

Non va inoltre dimenticato, in una valutazione complessiva quale quella che si sta proponendo, la prevista trasformazione in competenze esclusive regionali di ambiti che rientrano nelle materie “sanità” e “istruzione”, rispettivamente identificati in “assistenza e organizzazione sanitaria” e in “organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione” oltre che nella “definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione”. Fortunatamente resta di competenza statale la definizione delle “norme generali sulla tutela della salute” e delle “norme generali sull’istruzione”, il che dovrebbe permettere alla Stato di fissare gli standard che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Ma molto dipenderà – sempre che, ovviamente, la riforma superi il vaglio referendario – dal modo in cui la legislazione statale e regionale verrà esercitata, potendo essere messa a dura prova la stessa tenuta del principio di eguaglianza a fronte di politiche che accentuino il divario territoriale già esistente in settori essenziali quali quello scolastico e quello sanitario. In sostanza, l’esercizio di poteri frutto di un rafforzato decentramento territoriale rischia, come è stato da più parti rilevato, di incidere sul principio di eguaglianza (intraterritoriale) dei cittadini, specie se si tiene conto della non risolta “questione meridionale” e, comunque, della realtà italiana, di un “regionalismo caratterizzato da Regioni deboli (economicamente e fiscalmente) e Regioni ricche” (Gambino). Sul punto credo sia da auspicare una lettura delle nuove materie “esclusive” regionali quale quella qui proposta, rivolta cioè ad assicurare la permanenza dei limiti “trasversali” discendenti dall’esercizio di competenze statali; altrimenti, qualora si intendesse la competenza esclusiva come tertium genus  rispetto a quella concorrente e residuale, disancorata in particolare dai limiti finora individuati per quest’ultima dalla giurisprudenza costituzionale, quella che da molti è stata definita come una “bolla di sapone” si potrebbe tradurre in una “bomba” (Vandelli e poi Gambino). Nel senso che, non operando i limiti trasversali, ben potrebbero realizzarsi “effetti dirompenti sulla forma di Stato delineata dalla Costituzione” (Gambino).

***

Il testo sul quale saremo chiamati a pronunciarci in sede di referendum costituzionale non riguarda solo l’assetto delle competenze normative tra Stato e Regioni.

Anzi, le criticità maggiori sembrano annidarsi in altri punti della riforma, che coinvolge, attraverso la riscrittura di più di cinquanta articoli della Costituzione, l’intero assetto dei poteri. Se la riforma dovesse completare il suo iter con l’approvazione referendaria, avremo una riduzione dei poteri di garanzia del Presidente della Repubblica, una accentuazione del ruolo “politico” della Corte costituzionale (per effetto della diversa “distribuzione” dei 15 giudici costituzionali: 4 nominati dal P.d.R., 4 dalle supreme magistrature, 3 dalla Camera dei deputati, 4 dal “nuovo” Senato federale, integrato dai Presidenti delle Giunte regionali) e, soprattutto, una forte concentrazione dei poteri di governo in capo al primo ministro, il quale potrebbe revocare i ministri e, di fatto, sciogliere la Camera dei deputati. Avremo, secondo alcuni, una forma di governo “unica al mondo” (Elia).

Provo, in estrema sintesi, ad illustrare alcuni contenuti della riforma che riguardano l’assetto dei poteri.

Per quanto riguarda il Parlamento, è prevista la riduzione del numero dei parlamentari: la Camera dei deputati sarebbe composta da 518 deputati (oggi sono 630), e dai “nuovi” deputati a vita (massimo 3); il Senato sarebbe composto da 252 senatori (oggi sono 315). È altresì prevista la riduzione dell’età per essere eletti alla Camera (21 anni, oggi 25), al Senato (25 anni, oggi 40) e a Presidente della Repubblica (40 anni, oggi 50). Il Senato assume la denominazione di “Senato federale della Repubblica” e i senatori sono “eletti in ciascuna Regione contestualmente all’elezione del rispettivo Consiglio regionale o Assemblea regionale”, durando in carica fino alla proclamazione dei nuovi senatori della medesima Regione. Il legame dei senatori con il territorio sarebbe altresì assicurato dalla previsione, come requisito per l’eleggibilità a senatore, di aver ricoperto o ricoprire cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o di essere stato eletto senatore o deputato nella Regione o di risiedere nella Regione alla data di indizione delle elezioni. Verrebbe introdotto un bicameralismo imperfetto, spettando alla Camera dei deputati l’esame dei disegni di legge che rientrano nelle materie di competenza esclusiva statale. Una volta approvati dalla Camera, il Senato può proporre entro trenta giorni modifiche ai suddetti disegni di legge; sulle modifiche proposte la Camera decide in via definitiva. Al Senato federale spetterebbe l’esame dei disegni di legge concernenti la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di potestà concorrente. Anche in questo caso, negli stessi termini prima visti, la Camera può proporre modifiche dopo l’approvazione, ma la decisione definitiva spetta comunque al Senato. Vi sono poi alcune materie (quale, ad es., la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”) per le quali è necessaria una legge “bicamerale” approvata nel medesimo testo dai due rami del Parlamento. I Presidenti di Assemblea, d’intesa tra loro, decidono insindacabilmente le questioni di competenza sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti.    L’art. 70, nella nuova versione, prevede altresì che “qualora il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per la tutela delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte”. Il senso di quest’ultima disposizione è chiaro: il Primo ministro è il “dominus del procedimento legislativo”, avendo “finanche il potere di spogliare il Senato delle sue stesse competenze normative” (De Fiores). Il Primo ministro potrebbe inoltre porre la questione di fiducia su una proposta del Governo presentata alla Camera, dimettendosi in caso di voto contrario.

Il Primo ministro diverrebbe, più in generale, il vero dominus nell’assetto dei poteri prefigurato dalla riforma. Candidato mediante collegamento con i candidati (ovvero con una o più liste di candidati) all’elezione della Camera dei deputati, sarebbe nominato dal Presidente della Repubblica “sulla base dei risultati delle elezioni”. Il Governo non dovrebbe avere più la fiducia del Parlamento, essendo solo previsto che il Primo ministro, il quale “nomina e revoca i ministri”, illustri il programma di legislatura e la composizione del Governo alle Camere. Sul programma la sola Camera dei deputati dovrebbe esprimersi con voto, che, in assenza di specifica previsione sulla maggioranza richiesta, deve ritenersi possa essere espresso anche a maggioranza semplice. In caso di approvazione della mozione di sfiducia, la riforma prevede che il Primo ministro si dimette e il Presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indice le elezioni. Non solo, il Primo ministro dovrebbe dimettersi anche se la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. È prevista, inoltre, come unica eccezione all’automatico scioglimento della Camera dei deputati, la possibilità che quest’ultima approvi “con votazione per appello nominale dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, una mozione nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si designi un nuovo Primo ministro. In tale caso, il Presidente della Repubblica nomina il nuovo Primo ministro designato”. Come è stato rilevato, tra gli altri, da Zanon il sistema prefigurato dalla riforma consente in realtà al Primo ministro che possa contare anche su pochissimi deputati eletti nelle fila della maggioranza di paralizzare qualunque ipotesi di ascesa di un successore. Di fatto, ove la Camera non intenda sostenere più il Primo ministro è candidata al “suicidio”. Non solo – come ancora rileva Zanon – potrebbe “regnare incertezza circa l’individuazione dei parlamentari appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, non esistendo un voto di fiducia iniziale sulla cui base dividere in modo formalmente certo, e con dichiarazione esplicita, gli schieramenti… Ma, soprattutto, esisterebbe una sorta di status differenziato in modo permanente tra i parlamentari: perché tutti possono sfiduciare il Primo ministro, ma solo quelli appartenenti alla maggioranza lo possono sostituire. E qui chi riflette sulla tradizionale configurazione dello status di parlamentare, che non sembra ammettere ‘discriminazioni’ tra eletti, si vede nascere qualche dubbio”. Aggiungerei più di qualche dubbio, o declinerei il dubbio nella forma che mi pare più corretta, quella della sua legittimità costituzionale. Come conciliare queste previsioni con quella, espressiva di un principio fondamentale (forse supremo), per cui l’eletto rappresenta la Nazione ed esercita le proprie funzioni senza vincolo di mandato?

In questo contesto il Presidente della Repubblica sarebbe privato dei suoi fondamentali poteri, non potendo significativamente incidere sulle dinamiche della forma di governo nemmeno nelle situazioni di crisi.

Va anche sottolineato che solo una parte della riforma entrerebbe in vigore subito, quella che riguarda l’età per essere eletto Presidente della Repubblica, le Autorità indipendenti, alle quali si riferisce il “nuovo” art. 98 bis, il riparto di competenze tra Stato e Regioni. Un’altra parte della riforma, quella relativa alle funzioni del Senato federale, al procedimento di formazione delle leggi, ai poteri del Presidente della Repubblica, all’elezione e ai poteri del Primo ministro, si applicherebbe a partire dalla prima legislatura successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale (che dovrebbe coincidere con il 2011). Solo a partire dalla seconda legislatura successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale (che dovrebbe coincidere con il 2016), si applicherebbe la parte relativa alle elezioni contestuali dei senatori e dei consigli regionali, nonché alla riduzione del numero dei parlamentari.

***

Vi sarebbero anche altri punti da illustrare, ma mi limito a richiamare l’attenzione sull’ultimo articolo riscritto nella riforma, l’art. 138 Cost. Non è più prevista, nella nuova formulazione, la possibilità che, raggiungendosi la maggioranza dei due terzi nella seconda deliberazione, il procedimento di revisione costituzionale si completi. Si prescrive il raggiungimento della (sola) maggioranza assoluta e si prevede la possibilità del referendum, ove lo richiedano 1/5 dei membri di una Camera o 500000 elettori o 5 Consigli regionali. L’ennesima controprova del tentativo di mutare il senso del referendum costituzionale. Un tentativo compiuto, in diverso modo, con le richiamate leggi istitutive delle Commissioni bicamerali, le quali prevedevano addirittura un referendum obbligatorio. Un tentativo reiterato, in forma ancora diversa, in occasione del referendum costituzionale del 2001, laddove la maggioranza di centro-sinistra che aveva approvato allora la riforma formulò richiesta di referendum con il chiaro intento di ottenere l’avallo popolare sulla stessa. Ora, in base alla riforma costituzionale, il referendum diverrebbe strumento ordinario al quale fare ricorso nel procedimento di revisione costituzionale, abbandonandosi l’idea che invece esso sia strumento straordinario, da utilizzare solo ove le riforme non siano – come invece dovrebbe essere e il Costituente voleva che fossero – condivise anche da una larga parte dell’opposizione. Era ed è quello il senso della preferenza accordata dal Costituente al raggiungimento della maggioranza dei 2/3 in seconda deliberazione. Previsione, quest’ultima, che aveva consentito, fino al 2001, di revisionare o integrare la Costituzione senza bisogno del ricorso al referendum. Un referendum – ed è questo l’altro aspetto che si tende a travisare – che non è confermativo ma oppositivo, strumento nelle mani della minoranza (1/5 dei membri di una Camera o 500000 elettori o 5 Consigli regionali) per invitare il popolo (anche una minoranza di esso) a bloccare le riforme volute dalla maggioranza. Strumento che, di conseguenza, non essendo richiesto, a differenza del referendum abrogativo, un quorum di partecipazione, consente ad una minoranza del corpo elettorale di impedire con il NO la promulgazione di una legge costituzionale approvata con una maggioranza inferiore a quella dei due terzi dei parlamentari. Né per sostenere la natura confermativa del referendum costituzionale può essere invocata la formula imposta al quesito referendario dall’art. 16 della legge n. 352 del 1970: “Approvate il testo della legge costituzionale .. concernente … approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero … del ...?”. Per capire che anche per la legge n. 352 del 1970 il referendum è oppositivo non basta, ovviamente, rilevare che nell’art. 16 richiamato si usa il termine “approvate” anziché “confermate”, ma è necessario leggere l’art. 24, in base al quale “l’Ufficio centrale procede alla proclamazione dei risultati del referendum, mediante attestazione che la legge di revisione della Costituzione o la legge costituzionale sottoposta a referendum ha riportato, considerando i voti validi, un maggior numero di voti affermativi al quesito e un minor numero di voti negativi, ovvero, in caso contrario, che il numero dei voti affermativi non è maggiore del numero dei voti negativi”. Il che vuol dire che, in caso di parità di voti, la legge costituzionale non potrebbe comunque essere promulgata. 

Oggi il referendum costituzionale ci dà la possibilità di difendere la Costituzione, di opporci a questa riforma. Ma, se vinceranno i NO, il compito di difendere la Costituzione non dovrà esaurirsi il 26 giugno. Bisognerà mantenere desta l’attenzione, denunciare, subito, eventuali “tentazioni costituenti” della nostra classe politica. Evitare – come purtroppo si è fatto in occasione di questa campagna – di sostenere la tesi dell’ammissibilità delle sole revisioni puntuali, la quale “oltre che non convincente sotto il profilo dogmatico” si rivela “anche pericolosa sotto il profilo della ‘politica costituzionale’” (Panunzio). Essendo l’alternativa il ricorso a tante revisioni puntuali, anche contestuali, che consentano il conseguimento del risultato, vi potrebbe essere il rischio che, “ogni qual volta si voglia porre mano ad una riforma costituzionale di una certa complessità ed organicità”, quella tesi finisca “per dare argomenti a chi sostiene la necessità di convocare una ‘Assemblea costituente’” (Panunzio). Il che “sarebbe ancor più dirompente” e “costituzionalmente inammissibile” (Modugno).

Non resta che sperare che eventuali riforme, qualora ritenute necessarie, siano approvate con la maggioranza dei 2/3 dei componenti delle Camere, il che, come è noto, sulla base del presupposto dell’ampia condivisione anche da parte dei rappresentati, consente di evitare il ricorso al referendum. D’altra parte l’esperienza ha dimostrato che con il suddetto quorum si sono realizzate solo revisioni puntuali; al più, essendo necessaria una così ampia condivisione, si riuscirebbe a realizzare una riforma organica, non certo una riforma “globale”, coinvolgente così tanti istituti, quale quella che oggi ci troviamo a contrastare con lo strumento estremo del referendum costituzionale.

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